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Malattia di Alzheimer: la gestione del paziente durante l’emergenza Covid, la ripresa e le nuove frontiere di ricerca
Per la XIX Giornata Mondiale dell’Alzheimer abbiamo parlato con la Dott.ssa Zuffi dell'ospedale MultiMedica di Castellanza: obiettivo, capire perché questa patologia ha una copertura mediatica ampia e fare il punto sui servizi rivolti a malati e caregiver anche durante una crisi sanitaria come quella da Covid-19

Il 21 settembre si celebra la XIX Giornata Mondiale dell’Alzheimer. L’Osservatorio ThatMorning, che si occupa del monitoraggio quotidiano di tutte le notizie del settore Life Sciences & Health Care ha rilevato nell’ultimo mese quasi 700 contenuti online riferiti a questa patologia, a riprova della grande attenzione che richiama.
“Se ne parla molto perché è un tema che tocca un numero sempre maggiore di famiglie, anche in conseguenza del crescente invecchiamento della popolazione”, commenta la Dottoressa Marta Zuffi, direttore dell’Unità Operativa di Neurologia presso l’Ospedale MultiMedica di Castellanza (Va), specializzata nella diagnosi e terapia di malattie neurodegenerative. “Bisogna inoltre considerare che quella di Alzheimer è una malattia complessa, che suscita di per sé interesse. A partire dal 1907, anno in cui il neurologo tedesco Alois Alzheimer ne descrisse per primo i sintomi e gli aspetti neuropatologici, si sono aperti scenari speculativi e di ricerca molto stimolanti”.
Nel tempo sono cambiate, fortunatamente, anche le modalità di comunicazione legate alla malattia: prima se ne parlava in toni drammatici e allarmistici, mentre adesso è forte la volontà di privarla dell’aura di stigma sociale che a lungo l’ha circondata, di fare chiarezza e di dimostrare che anche le persone con Alzheimer possono condurre una vita il più possibile piena e coerente con la loro identità.
Resta innegabile il fatto che l’emergenza sanitaria ancora in corso abbia messo in grave difficoltà i pazienti, ed è proprio adesso, a pochi mesi dal termine del lockdown, che è possibile iniziare a tirare le somme delle ricadute che ha avuto su malati e famiglie. Il nostro colloquio con la Dottoressa Zuffi parte proprio da qui.
Dottoressa Zuffi, uno studio promosso da Alzheimer’s Disease International che ha analizzato l’impatto del Covid-19 sui pazienti con Alzheimer nei mesi dell’emergenza sanitaria ha evidenziato che in Italia un morto su 5 era affetto da demenza: dato in realtà spiegabile dal fatto che l’età è il principale fattore di rischio per la demenza, e gli anziani sono il gruppo più esposto a contrarre il virus. Quali conseguenze ha avuto sui pazienti seguiti dalla vostra Unità la pandemia tuttora in corso?
Senz’altro il recente lockdown ha comportato un globale rallentamento e un generale peggioramento delle condizioni dei nostri pazienti, anche se molti non hanno significativamente modificato il loro stile vita domestico durante la quarantena.
Il nostro ambulatorio ha continuato a lavorare per gestire soprattutto le urgenze cliniche, e ci siamo impegnati e resi disponibili per mantenere comunque un contatto costante con i pazienti e i loro familiari, sia come ospedale, sia come Associazione Alzheimer MultiMedica Onlus. Purtroppo, però, la pandemia ha rallentato i controlli di routine e interrotto l’attività di importanti strutture assistenziali, su tutte i centri diurni: realtà troppo spesso sottovalutate la cui mancanza, come spesso accade, ha messo in luce quanto invece siano preziose.
Di contro, durante la quarantena, i pazienti hanno avuto modo di stare più vicino ai loro familiari in fermo lavorativo o in smartworking: tutto questo ha rinforzato i legami e lasciato una traccia positiva forte. Fra gli ammalati da noi seguiti non abbiamo registrato decessi in ragione del fatto che, sin dall’inizio dell’emergenza, sono stati immediatamente protetti. In alcuni casi, però, sono venuti a mancare i loro caregiver, specie quelli a loro volta anziani: un fatto drammatico per i pazienti, ai quali risulta particolarmente difficile comprendere il brusco allontanamento e la morte di una persona vicina.
Come si sta prospettando, adesso, la ripartenza?
Lo scenario attuale è paragonabile a quello di una marea che si ritira, lasciando sassi e detriti scompigliati. Bisogna tornare a gestire le cronicità dei pazienti negli ambulatori, peraltro facendo fronte alle difficoltà di comunicazione dovute alla mascherina. Devono ripartire anche le iniziative di supporto alle famiglie, come i centri diurni che permettono, pur mantenendo i pazienti presso il loro domicilio, di stimolarli e tenerli attivi: al momento ancora funzionano, ma a giorni alterni e senza possibilità di trasporto per i pazienti a causa delle norme di sicurezza.
L’Associazione Alzheimer MultiMedica Onlus è molto impegnata su questo fronte: quali sono le principali attività che vengono portate avanti?
Le attività dell’associazione si articolano su due fronti: da un lato c’è il supporto alle famiglie, con costanti cicli di incontri informativi, di cadenza quindicinale, in cui sono coinvolti medici, psicologi e assistenti sociali, che offrono sostegno anche per dirimere le tante incombenze pratiche che le famiglie devono affrontare. Vengono poi organizzati gruppi di auto-aiuto coordinati da una psicologa, molto utili a favorire lo scambio di informazioni, il dialogo e il sostegno.
Fra le attività più soddisfacenti rivolte ai malati spicca invece l’atelier permanente di arte terapia, avviato ormai da diversi anni, che permette di lavorare sull’espressione artistica come modalità di racconto, e che dà grande gioia ai pazienti. Altrettanto apprezzati sono i gruppi di psicomotricità; proprio lo scorso febbraio, poi, avevamo avviato un ciclo di incontri con pazienti e familiari a tema arte e movimento, e abbiamo dovuto sospenderli a causa del lockdown. Speriamo di poterli riprendere il prima possibile.
Durante la quarantena sono state sviluppate iniziative online?
Sì, sono state organizzate videochiamate di gruppo, ad esempio per mantenere i contatti fra arte terapeuta e pazienti e per rassicurarli, anche attraverso la lettura di racconti. Alcuni pazienti si sono fatti coinvolgere, e a loro volta hanno mandato saluti, foto, disegni: queste modalità, però, non possono essere mantenute troppo a lungo. Le persone con Alzheimer sono molto contesto-dipendenti: hanno bisogno di empatia, calore, linguaggio, contatto e sorrisi.
Che cosa sta cambiando nell’approccio alla malattia, e quali sono le novità più interessanti sul fronte della ricerca?
Quella di Alzheimer è una malattia che non va sottovalutata, ma in un momento in cui, dal punto di vista della comunicazione, risulta persino sovraesposta è più che mai importante prendere le distanze da facilonerie e imprecisioni, interpretando come segnali minime dimenticanze o confondendola con altre forme di demenza.
Oggi sappiamo che quella di Alzheimer è una malattia neurologica degenerativa legata ad alterazioni che coinvolgono principalmente le proteine beta-amiloide e Tau, che agiscono su specifiche aree cerebrali compromettendo le funzioni cognitive; sappiamo anche, però, che su queste funzioni incidono altri fattori legati allo sviluppo della persona, al contesto in cui vive, alle esperienze passate, ed è per questo che i pazienti vanno seguiti su più fronti.
Nel campo della ricerca gli studi si stanno concentrando sugli anticorpi monoclonali anti-beta amiloide e anti-Tau, ma ora anche sulla neuro infiammazione implicata nella malattia: ricerche interessanti, queste ultime, anche per la messa a punto di nuovi strumenti diagnostici.
Qual è attualmente l’iter che si segue per la diagnosi?
Premetto che, essendoci oggi una conoscenza più radicata della malattia e aumentando le forme cosiddette giovanili - che esordiscono cioè prima dei 60 anni - le persone tendono ad approfondire tempestivamente eventuali sintomi, soprattutto se esiste una familiarità con la patologia. Si parte dunque da una visita ambulatoriale durante cui si procede a un’anamnesi generale e a un esame neurologico obiettivo. Come passo successivo il nostro centro propone un pacchetto diagnostico in day service: i pazienti vengono sottoposti a esami del sangue, TAC dell’encefalo, elettrocardiogramma e test cognitivi molto approfonditi. Se anche con questi esami permane una incertezza diagnostica, o se il paziente è molto giovane, si possono concordare indagini di secondo livello, come la risonanza magnetica, la rachicentesi, (utile anche per differenziare fra varie forme di demenza), o la PET cerebrale. Una volta confermata la diagnosi il paziente viene preso in carico. Il piano terapeutico farmacologico ha scadenza semestrale, ma questo vincolo, benché possa risultare disagevole, consente un monitoraggio costante dell’andamento dei pazienti.
Qual è in genere il decorso della malattia? Che aspettativa di vita hanno i pazienti?
Mediamente l’aspettativa di vita è di una decina di anni dal momento della diagnosi, ma a condizionarla sono molti fattori: lo stato di salute generale del paziente, la presenza di eventuali malattie concomitanti, ma anche il suo ambiente, i suoi vissuti e la sua riserva cognitiva, che ha un’importanza fondamentale.
I pazienti possono trarre grande giovamento da approcci di cura personalizzati: l’attività fisica, ad esempio, è molto importante perché migliora il trofismo dell’ippocampo, la parte del cervello in cui si trovano le aree coinvolte dalla malattia. Fondamentale è poi mantenere buone relazioni interpersonali e, soprattutto, cercare di conservare la propria identità. Anche nella cura, dunque, non esistono dogmi: rispettare le inclinazioni del paziente è essenziale.
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